Cassazione Penale, Sez. 3, 01 aprile 2022, n. 11992

La Corte di Appello ha confermato la sentenza di condanna del legale rappresentante di una ditta di costruzioni, sospesa, di mesi quattro di arresto per più reati di cui al d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 in materia di sicurezza del lavoro.

Presidente: PETRUZZELLIS ANNA
Relatore: CERRONI CLAUDIO Data Udienza: 10/02/2022

Fatto

1. Con sentenza del 12 aprile 2021 la Corte di Appello di Messina ha confermato la sentenza del 25 novembre 2019 del Tribunale di Patti, in forza della quale S.L.I., in qualità di legale rappresentante della s.r.l. C.P. Costruzioni, era stato condannato alla pena, sospesa, di mesi quattro di arresto per più reati di cui al d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 in materia di sicurezza del lavoro.
2. Avverso la predetta decisione é stato proposto ricorso per cassazione articolato su un motivo di impugnazione, tramite il quale — invocando violazione di legge e vizio motivazionale – è stato censurato il mancato riconoscimento della speciale causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen..
2.1. In particolare, la sentenza impugnata aveva escluso la non abitualità del fatto in considerazione del numero delle contravvenzioni contestate e della circostanza che esse erano state poste in essere nell’ambito di un’attività imprenditoriale.
Ciò posto, secondo il ricorrente evidente appariva l’illegittimità di quest’ultima giustificazione, non sussistendo al riguardo alcuna esclusione normativa. Quanto agli altri requisiti di legge, era stata omessa ogni valutazione su modalità della condotta nonché esiguità del danno e del pericolo, laddove dalla pluralità delle contravvenzioni non poteva di per sé dedursi l’abitualità del comportamento, attesa la necessità di un’indagine in ordine alla serialità eventuale delle condotte, con una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta.
In specie il ricorrente ha altresì dedotto tanto l’ottemperanza alle prescrizioni imposte quanto l’occasionalità della condotta, sottolineando altresì il quantum di pena, contenuto nel minimo edittale.
3. Il Procuratore generale ha concluso nel senso del rigetto del ricorso.
4. Il difensore ha depositato conclusioni scritte insistendo sul motivo di ricorso, altresì rilevando la prescrizione dei reati contestati.

Diritto

5. Il ricorso è infondato.
5.1. Il primo comma dell’art. 131-bis cod. pen. prevede l’esclusione della punibilità – nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena – quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale.
Devono pertanto ricorrere, congiuntamente e non alternativamente, due condizioni: la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento.
5.1.1. Quanto al primo requisito, è nozione ormai comune che sia necessaria una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell’art. 133, primo comma, cod. pen., delle modalità della condotta, del grado dì colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266590).
La – pacifica – natura di reato di pericolo presunto, rivestita dalle contravvenzioni contestate al ricorrente, richiede pertanto una valutazione complessiva della condotta criminosa, sulla base degli elementi indicati dal primo comma dell’art. 133 cod. pen., correlata alla lesione potenziale del bene giuridico tutelato dalla norma penale, ossia la sicurezza sul lavoro, che prenda in esame tutte le peculiarità della fattispecie concreta in termini di possibile disvalore.
In relazione a tal genere di reati, la valutazione in ordine all’offesa al bene giuridico protetto va invero tra l’altro retrocessa al momento della condotta secondo un giudizio prognostico ex ante, essendo irrilevante l’assenza in concreto, successivamente riscontrata, di qualsivoglia lesione (Sez. 3, n. 19439 del 17/01/2012, Miotti, Rv. 252908; Sez. 3, n. 23184 del 23/06/2020, Runco, Rv. 280158).
Il compito del giudice di merito si risolve pertanto in un accertamento diretto a verificare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato dalla disposizione incriminatrice. Infatti il pericolo di offesa al bene giuridico sorge, potendo perciò ritenersi integrata la categoria penalistica del “pericolo”, quando, secondo un giudizio appunto ex ante e secondo le evidenze disponibili certificate dalla migliore scienza ed esperienza, appare probabile che, secondo l’id quod plerumque accidit, dalla condotta consegua l’evento lesivo che il legislatore, anticipando il momento della tutela, intende scongiurare.
Non può così ritenersi che, nella specie, la sanzione penale sia stata inflitta per una condotta formalmente inosservante, ma totalmente inoffensiva, in quanto nelle ripetute condotte riscontrate deve ritenersi contenuto un disvalore tale da concretizzare la messa in pericolo della sicurezza sul lavoro, quale bene finale tutelato dalle norme incriminatrici. Non può parlarsi, infatti, di infrazioni aventi natura esclusivamente formale, poiché sicuramente l’inosservanza delle prescrizioni determina situazioni intrinseche di rischio non marginali, essendo suscettibili di mettere in pericolo l’incolumità e la stessa vita dei lavoratori che si trovino ad operare in assenza dei necessari presidi di sicurezza.
Non rileva altresì in proposito il comportamento tenuto dall’agente post delictum, atteso che la norma di cui all’art. 131-bis cit. correla l’esiguità del disvalore ad una valutazione congiunta delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile, dell’entità del danno o del pericolo, da apprezzare in relazione ai soli profili di cui all’art. 133, comma primo, cod. pen., e non invece con riguardo a quelli, indicativi di capacità a delinquere, di cui al secondo comma, includenti la condotta susseguente al reato (Sez. 5, n. 660 del 02/12/2019, P., Rv. 278555; Sez. 3, n. 23184 cit., laddove è stata ritenuta immune da censure la decisione di merito nella parte in cui aveva considerato ininfluente, ai fini del riconoscimento della causa di non punibilità, l’adempimento tardivo alle prescrizioni imposte dall’organo amministrativo, in quanto post factum del tutto neutro rispetto al grado di offensività dell’illecito).

La valutazione di non punibilità si pone logicamente in un momento successivo rispetto all’accertamento del fatto di reato in tutti i suoi elementi costitutivi, per la cui giuridica esistenza è necessariamente richiesta la presenza di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole e non anche l’assoggettamento, in concreto, alla sanzione penale di colui che lo ha commesso. Da ciò consegue che il tardivo adempimento alle prescrizioni dell’organo amministrativo è un post factum neutro rispetto al disvalore dell’illecito penale, anche in termini di offensività. Pertanto, non ha alcuna rilevanza la circostanza indicata dalla difesa, ossia l’avere sottolineato, nell’atto di appello, l’ottemperanza, da parte del ricorrente, alle prescrizioni imposte quale elemento idoneo per il riconoscimento della causa di esclusione della punibilità.
Per quanto concerne, invece, il secondo requisito, è il medesimo art. 131-bis cod. pen., al comma terzo, che specifica quando il comportamento è abituale, ossia nel caso in cui l’autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.
Non può così riconoscersi la causa di esclusione della punibilità qualora l’imputato abbia commesso più reati della stessa indole (ovvero plurime violazioni della stessa o di diverse disposizioni penali sorrette dalla medesima ratio), poiché è la stessa previsione normativa a considerare il “fatto” nella sua dimensione “plurima”, secondo una valutazione complessiva in cui perde rilevanza l’eventuale particolare tenuità dei singoli segmenti in cui esso si articola (Sez. 5, n. 26813 del 10/02/2016, Grosoli, Rv. 267262).
È proprio, quindi, l’art. 131-bis, comma terzo, cit., che non consente di applicare in specie la causa di non punibilità, atteso che esso esclude, tra l’altro, di poter riconoscere tale causa in favore di chi abbia commesso più reati della stessa indole, anche nell’ipotesi in cui ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità.
Con tale previsione il legislatore non si è voluto riferire solo ai casi in cui l’autore del reato sia gravato da precedenti penali (atteso che, se ciò fosse stato il suo intento si sarebbe espresso in termini di recidiva specifica). E’ possibile invece dedurre che anche al soggetto agente, che abbia violato più volte la stessa o più disposizioni penali sorrette dalla stessa ratio puniendi, non può essere applicata la causa di non punibilità, in quanto è la stessa norma a considerare il fatto secondo una valutazione d’insieme. Infatti, non ha alcuna importanza l’eventuale particolare tenuità dei singoli segmenti in cui il fatto si articola, ma ciò che rileva è che esso, complessivamente considerato, sia connotato da una gravità tale da non poter essere considerato di particolare tenuità.
Deve, dunque, affermarsi che la speciale causa di cui all’art. 131-bis cit. non può essere applicata, ai sensi del terzo comma del predetto articolo, qualora l’imputato, anche se non gravato da precedenti penali specifici, abbia commesso più reati della stessa indole (ovvero plurime violazioni della stessa o di diverse disposizioni penali sorrette dalla medesima ratio), anche nell’ipotesi in cui ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità (Sez. 3, n. 776 del 04/04/2017, Del Galdo, Rv. 271863).
Peraltro, l’identità dell’indole dei reati eventualmente commessi deve essere valutata dal giudice in relazione al caso esaminato, verificando se in concreto i reati presentino caratteri fondamentali comuni (Sez. 5, n. 53401 del 30/05/2018, M., Rv. 274186; Sez. 4, n. 27323 del 04/05/2017, Garbocci, Rv. 270107).
Correttamente, dunque, la Corte di Appello ha negato l’applicabilità dell’invocata norma, essendosi l’imputato reso responsabile di molteplici violazioni di norme riguardanti reati della stessa indole, in quanto lesivi del medesimo bene giuridico tutelato, ossia la sicurezza sul lavoro.
In tal senso va quindi letto il passaggio motivazionale richiamatosi all’attività imprenditoriale del ricorrente, atteso che in tale ambito lavorativo sono state consumate una pluralità di condotte di pericolo, in sé sicuramente non marginali ed espressive invece di una specifica e reiterata sottovalutazione dei rischi che invece comportamenti prescritti, ma inosservati, erano chiamati a positivamente fronteggia re.
6. In relazione infine al foglio di conclusioni e ai rilievi ivi svolti circa la pretesa intervenuta prescrizione, trattasi di considerazioni non fondate.
I reati sono stati accertati il 2 dicembre 2016.
Al termine quinquennale di prescrizione di cui agli artt. 157, comma 1 e 161, comma 2, cod. pen. devono peraltro aggiungersi i periodi di sospensione della prescrizione dal 16 gennaio al 9 aprile 2019 nonché dal 9 aprile 2019 e dal 5 luglio 2019, in queste due ultime ipotesi per sessantuno giorni ciascuna. Ictu oculi la causa di estinzione non è pertanto maturata alla data della decisione di questa Corte.
7. Alla complessiva infondatezza del motivo di impugnazione consegue il rigetto del ricorso, con la condanna altresì del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 10/02/2022

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